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“Fondamentale istituire a livello europeo una misura universale di reddito minimo per coloro che si trovano nella condizione di non poter lavorare, che hanno un reddito che non permette di vivere una vita dignitosa, che hanno perso i benefici degli ammortizzatori sociali o non hanno raggiunto l’età pensionabile”. È quanto chiede lo European anti poverty network (Eapn) che in questi giorni ha portato a termine un biennio di studio sul reddito minimo nel vecchio continente. Una ricerca finanziata dalla Commissione europea e che ha coinvolto tra il 2013 e il 2014 trenta reti territoriali presenti in altrettanti paesi europei. A lanciare l’appello Nicoletta Teodosi del Collegamento italiano di lotta alla povertà (Cilap), membro italiano del network europeo che in una nota riassume i principali risultati dello studio.

Su 30 paesi europei osservati durante il progetto Emin (European minimum income schemes – Misure per un reddito minimo europeo), aggiunge Teodosi, 28 hanno misure di reddito minimo corrispondenti alla definizione usata dal programma e riconosciuta dal Parlamento europeo e dalla Commissione. “Invece Italia e Grecia non hanno una misura specifica corrispondente – aggiunge Teodosi -, anche se nel caso italiano vi sono state sperimentazioni nazionali (1997), e vi sono attualmente strumenti economici quali le Social Card (2008 e 2013), ma non equiparabili al Reddito minimo europeisticamente inteso. Alcune Regioni, a seguito della Riforma del Titolo V della Costituzione, hanno emanato negli anni normative in favore di un supporto al reddito, facendo emergere ancora di più la macchia di leopardo del sistema italiano”.

Mentre in Italia si aspettano buone notizie sull’allargamento della sperimentazione del Sia, il sostegno per l’inclusione attiva (nato dalla sperimentazione delle nuova social card), in Grecia qualcosa si sta muovendo, anche se si parla sempre e solo di sperimentazioni. “In Grecia nel 2014 il governo ha annunciato l’introduzione di un reddito sociale garantito – aggiunge Teodosi -, con una sperimentazione di 6 mesi, al termine della quale la misura dovrebbe essere estesa in tutto il territorio nazionale”.

Dallo studio condotto in questi due anni, intanto, emerge un reddito minimo a diverse velocità nel panorama europeo. Se la forma di reddito minimo più diffusa (presente in Germania, Francia e in altri paesi) è rivolta a “tutti coloro che hanno insufficienti strumenti per sostenersi”, non mancano forme che prevedono una ridotta copertura dell’indigenza o sistemi complessi e spesso categoriali. “Le condizioni di eleggibilità – spiega Teodosi -, la possibilità cioè di essere considerati possibili beneficiari di una misura di reddito minimo, sono legate alla quantità di risorse finanziarie messe a disposizione dai governi, all’età del beneficiario, alla nazionalità e alla residenza. La condizionalità è legata alla volontà di accettare un lavoro. La crisi economica ha ulteriormente accentuato questo obbligo, pur in carenza di lavoro o di trovare un lavoro retribuito decentemente”. Nel contesto europeo, spiega lo studio, i paesi più “generosi” ( riguardo al sostegno sono Danimarca e Islanda, subito dopo ci sono Austria, Belgio, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, e Olanda. Ad un livello medio-basso di generosità troviamo paesi come Cipro, Germania, Spagna, Finlandia, Francia, Malta, Norvegia, Portogallo, Gran Bretagna. Basso livello di generosità sono stati trovati in paesi come Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Romania e Svezia. Ancora peggio per Bulgaria, Lettonia, Polonia e Slovacchia.

Intanto, secondo Teodosi, si sta costruendo un “consenso europeo intorno al reddito minimo, a partire dalle Raccomandazione del Consiglio (Capi di stato e di governo) del 1992 – spiega -, in cui veniva stabilito il diritto di base di una persona ad avere risorse e assistenza sociale sufficiente a vivere in dignità. Nel 2008, la Commissione ha emanato la Raccomandazione sull’Inclusione Attiva, avallata dal Consiglio, che prevedeva 3 assi, tra cui il reddito minimo adeguato. Purtroppo, però, ancora nel 2013 solo 7 Stati membri avevano fatto progressi relativamente alla implementazione della strategia per l’inclusione attiva, e tra questi non risulta esservi l’Italia”.

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